L’  E P I F A N I A

Racconto di

 

VENERIO  CATTANI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gaspare, Melchiorre e Baldassarre potevano ora vedere la grande stella a cinque punte, col lungo strascico di  polvere d’oro, quasi a perpendicolo su di loro.

“Siamo quasi arrivati, riposiamoci un po.”, propose Gaspare.

Scese dal cammello con grande fatica, stirandosi i muscoli delle gambe. Era anziano, ma ancora un bell’uomo: una lunga barba nera, il viso olivastro sormontato da un ricco turbante bianco, monili e anelli d’oro arricchiti da pietre preziose, rubini e smeraldi.

Appena a terra, venne circondato  dalla piccola turba di servi , discesi da cammelli e somari. Chi gli protendeva il sedile pieghevole, di vimini e pelle; chi il bacile d’argento con l’acqua profumata per lavarsi il viso e le mani; chi il tappeto per stendersi a riposare; chi la preziosa borraccia per bere. Gaspare s’inginocchiò per rendere grazie al Dio Ahura Mazda e al suo profeta, il grande Zoroastro; e ugualmente fecero gli altri due Re Magi, anch’essi seguaci di Zoroastro, astrologi, filosofi e maghi.

Quando furono seduti, massaggiati dai servi e riposati, con una coppa argentea colma di vino per ciascuno, Gaspare cominciò a raccontare:

“Me la sono vista brutta. Appena mi hanno visto, gli americani hanno preso a sparare. Hanno ucciso quattro dei miei servi, ho perduto tre cammelli e due cavalli e non so quante borse di provviste e di doni. Mi avevano scambiato per Osama Ben Laden!

E’Osama, è Osama! gridavano gli stolti. Ha la barba nera, il turbante bianco, è alto e magro, è Osama! 

Fermi, idioti, che Zoroastro vi fulmini! urlavo io, ovviamente in inglese, una delle dieci lingue che parlo perfettamente: l’arabo, l’ebraico, l’aramaico, il persiano, il greco, il latino, l’inglese, il francese, lo spagnolo e l’italiano. L’abbiamo preso, dicevano, chissà come sarà contento il Presidente.

Mi sono salvato, naturalmente per miracolo di Zoroastro. Ho alzato il mio monile contro il sole e il mio specchio di rilucente metallo, e loro, i miscredenti, sbagliavano mira. Le pallottole, zip-zip, mi passavano rasente le orecchie, due mi hanno trapassato il turbante, ma nessuna mi ha toccato, grazie a Zoroastro”.

“La stessa cosa è capitata a me”, raccontò Melchiorre. “Arrivato al confine con la Siria, una pattuglia mi ha scambiato per Zawairi.

Acchiappalo, acchiappalo, sbraitavano, bim, bum, bam, taratrasch, con le loro maledette mitragliette, che Zoroastro li confonda. No, gli gridavo in egiziano, non sono il maledetto dottor Zawairi, neanche suo parente! Ma non capivano nulla. Ho provato a dirglielo in inglese, io lo parlo perfettamente, sapete, l’ho imparato a Oxford, mentre loro capiscono solo lo slang di Harlem.

C’erano dei negracci spaventosi, non capisco come facciano a chiamarsi americani. L’unico che mi ha capito, era un americano di origine indiana, un pellerossa tutto tinto di bianco. Per fortuna, era l’ufficiale comandante. Alt, somari, ha ordinato; e così mi sono salvato”.

“A me è andata anche peggio”, disse a sua volta Baldassarre. Era il terzo Re Mago, era di pelle molto scura, ma non era negro, veniva dal Regno di Saba, dallo Yemen del Sud. “Mi hanno creduto il Mullah Omar, ricordate, il capo dei talebani, quello fuggito in motocicletta. Sono riusciti a prendermi. Mi hanno bastonato tutta la notte, volevano che confessassi. Cane maledetto! Hai finito di mettere il burka alle donne; ora ci siamo noi e vedessi come ballano il boogi–woogi, nelle balere di Kabul. Mi torturavano, al punto che stavo per confessare di essere il Mullah Omar, tanto per farli smettere un po”. Per fortuna in quel momento è apparso un angelo, in divisa da colonnello dei marines. Secondo me, di sicuro era il nostro Zoroastro. Che fate, cafoni!, ha detto. Non vedete ch’è un sant’uomo, ha sul turbante il diadema della Regina di Saba, è pieno colmo di brillanti e monete d’oro. Dai, mi ha detto. Lascia giù tutti quei brillanti, monili, monete e vattene.Per fortuna mi ha lasciato il regalo da offrire al Bambino, questo bel vaso pieno di mirra. Che è? mi ha chiesto. Mirra, ho detto. Ma puzza, ha detto lui. No, gli ho spiegato, è un balsamo miracoloso, una resina, un unguento che sana tutte le malattie. Boh, tientelo, ha detto lui, preferisco la coca cola”.

“Anch’io”, disse Gaspare felice, “ho salvato il mio sacco d’oro!”

“E io il mio la mia giara piena d’incenso, con l’incensiere d’argento, che faremo ciondolare davanti alla Sacra Famiglia,

profumeremo tutta la casa del Signore. Chissà che magnifica casa avrà, che stupendo palazzo”.

Perciò ci rimasero male, quando arrivarono da Gesù e videro che era steso su una mangiatoia, in una misera stalla.

“Non è mica possibile”, disse sottovoce Gaspare a Melchiorre. “Il Re della Terra, il Redentore, il Figlio di Dio, lì sulla paglia, tra un asino e un bue!”

“Questa volta Zoroastro ci ha imbrogliato”, disse Melchiorre, piccato. “O siamo noi che abbiamo sbagliato indirizzo?” suggerì Baldassarre. “No”, disse Gaspare. “La stella è qui sopra, a cinque punte, proprio quella di Davide. Fuori è gremito di pastori in ginocchio, abbiamo fatto gran fatica a passare, permesso- permesso, per piacere, il Bambino è lì, bello fresco, pare che capisca tutto, dev’essere lui, per forza. Ma chissà perché hanno combinato una mascherata del genere”.

“Eh!”, fece Baldassarre scandalizzato. “Ora la Madre ha tirato fuori la tetta e gli dà il latte!”

“Beh, è un po’ troppo disinvolto per un Dio e una Madonna, ma in fin dei conti se è un uomo in carne ed ossa e non uno spirito, deve pur mangiare anche lui”, concesse Gaspare.

Si fecero avanti, protendendo i regali, esattamente come si vede nelle tavole di Gentile da Fabriano e di Benozzo Gozzoli, e nel

Presepe del Perugino a Città della Pieve.

“Bei signori”, si rivolse loro San Giuseppe. “Benvenuti, chi siete e che portate di bello?”

“Siamo i Re Magi”, ripose Gaspare per tutti. “Io dell’Arabia, lui della Persia e lui dello Yemen. Portiano oro, incenso e mirra”.

“Per essere dei Re”, sussurrò Giuseppe a Maria, “non si sono disturbati troppo. Appoggiate pur lì”.  

“Scusate”azzardò Gaspare. “Ma noi siamo venuti di lontano, per vedere il Re della Terra, pensavamo che aveste una Reggia e invece vi troviamo in una stalla… Perchè mai?”  

“Eh, sapeste”, mormorò San Giuseppe, l’indice sulle labbra. “Già il Re Erode è nero di rabbia, è geloso, minaccia di fare un macello. Ci siamo dovuti nascondere e domani all’alba scapperemo in Egitto”. 

“Mah”, disse Gaspare ai colleghi, mentre si ritiravano. “Prima ci sparano addosso, ora rischiamo di farci infilzare. Sarà un Re, ma mi sembra un po’ debole”.

“Droppo bono badrone, scusate, troppo buon padrone è Bambino Gesà”, argomentò Baldassarre. “Lui finire male, scusate, temo proprio che andrà a finir male”.    

 

 

 

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La vecchia scalciò sul pedale, tentando di mettere in moto la scopa. Il suo nome era Epifania, ma universalmente era chiamata più familiarmente, Befana. Al terzo calcione la scopa s’impennò e partì verticalmente come un razzo. 

In Cielo non era sola, anzi. Sfrecciavano d’ambo i lati, missili e astronavi inviati da Cape Canaveral, da Baykonur, da Samoa e piccoli satelliti che venivano da un po’ dappertutto.

Due astronauti erano usciti proprio allora dalla stazione orbitante

per le loro usuali manovre sperimentali e d’aggiustamento.

“Ehi, vecchia!”, gridò uno di loro. “Ma dove diavolo vai, sempre così in fretta. Vieni a bere uno champagne, a fare quattro salti da noi!”

“Ho da fare”, rispose Befana. “Accidenti a voi uomini, avete complicato tutto. Una volta quassù era la pace celeste, non c’era nessuno, tranne qualche asteroide inoffensivo, ora c’è un traffico peggio che a Roma. Devo curvare e scartare, cabrare e frenare, come uno scooter qualunque. Tenete, eccovi il regalo!” Buttò loro un sacco di seta argentata, che l’astronauta aprì curioso. “Carbone!”, ringhiò. “A zozza maledetta, pozzinammazzatte!”, gridò tra il serio e il faceto.   

“E’ quello che vi meritate! L’anno prossimo ve lo riempio di merda, avvelenatori della Terra, del  Cielo e della Galassia!”

Eseguito a perfezione un giro della morte, cominciò a planare verso terra. 

Quando fu sulla direttrice della Madonnina, svoltò verso Arcore.

Villa San Martino si vedeva facilmente, nonostante la nebbia, circondata com’era dal grande parco. Si arrestò sul comignolo e allentò la chiusura del sacco.

“B,B,B;Bardot,Berlusch,Berluscai,Berluscoi, oh finalmente, Berlusconi. Un bel mandolino, con ornamenti di madreperla e bischeri d’oro a 18, la penna di celluloide, un diapason per accordarlo; e lo spartito delle sue dodici canzoni napoletane, edito in pergamena da Ricordi. E’ un bel regalo, se lo merita, dopo tante  fatiche. Per la Signora Veronica, la cui virtù di sopportazione ha del miracoloso, un Rosario di brillanti, perle, smeraldi, rubini, topazi e croce di diamanti; e un Berlusconi di gomma, a grandezza naturale (non è affatto grande) da riempirsi d’acqua calda, per le notti d’inverno che passa da sola nella villa enorme e desolata”. Plif, spinse i due pacchi giù per la cappa del camino.

Poi sfrecciò verso il Lag de Vares, sulla verticale del Senatur Bossi. La casa non aveva il camino; era troppo una roba raffinata.

Sporgeva fuori da un vetro, la canna fumaria della cucina economica. La Befana spingeva, ma il pacco era troppo grosso.

E te credo, c’era dentro Roma Capitale. “Ma quale Caput Mundi”, brontolò la Befana. “Crapun, testun! Ghe pensi mi, adess”. E si mise a tagliar Roma con l’accetta da taglialegna, che il Bossi aveva lasciato lì, in tel giardinett. Finalmente, una fetta per volta, il Colosseo, San Pietro, il Vaticano, il Quirinale, Fontandetrevi, riuscì a buttar giù tutto, ma la canna s’intasò. “Ostia, la fa el fum! “gridò Bossi la mattina dopo, tentando di accendere la stufa per farsi il caffè d’orzo.     

La Befana non volle starlo a sentire e volò verso Bologna. Quando fu sopra la bella chiesa di Santo Stefano, si tuffò sul camino di Prodi. Prodi il camino ce l’aveva, perché era un signore e un reggiano. La Vecchia infilò un sacco rotondo, di bellissima tela impermeabile. “Cosa sarà”, domandò Prodi alla signora Flavia la mattina dopo. “Mo sarà la solita mortadella dei soliti spiritosi”,

sbuffò seccata la signora. No: era la testa di Igor Marini spiccata dal busto. Sembrava il San Giovanni decollato del Caravaggio.

La signora Flavia svenne; ma Romano, imperturbabile, commentò: “Mo vedi un po’ te che bella sciorpresa! Te lo dicevo io, che doveva pur  finire l’infamia!”

Il regalo per il Presidente, la Befana lo depositò sul Torrino, vicino allo Stendardo presidenziale. Era un elegante trombone in ottone dorato, di quelli classici a spirale, legato ai tasti con un filo di seta tricolore lo spartito originale dell’Inno di Mameli. C’era una dedica: “Con gratitudine, Goffredo”. E per la signora Franca, un pacchetto dorato con una bellissima armonica a bocca, marca “Bravi Alpini”, con due righe di pugno della Befana: “Così forse starà zitta per un po”. La Franca era una donna di spirito, e commentò: “Meno male che non è una mordacchia”. 

Ma il regalo più bello fu per Papa Woytila. In verità, la Befana

fece prima una puntatina al camino di Navarro Vals. Al quale lasciò un dono curiosissimo: un sacco di carbone, con in mezzo una scatolina dorata, che conteneva un cuoricino di velluto rosso, con infilato uno spillo e un bigliettino di quelli da cioccolatino perugina, con scritto: “Fallo smettere, fermalo”.  

Ma per Giovanni Paolo, arrivò dal Cielo, nel giardino del Vaticano, con un paracadute di seta dorata, una bellissima poltrona, con le ali. Con essa, il Papa avrebbe potuto entrare e uscire direttamente dalla finestra, senza più bisogno di scalamobile, sediamobile, papamobile, ascensormobile, trenomibile, navemobile, aeromobile. Poteva perfino dormirci e all’occorrenza arrivarci dritto in Paradiso, senza più dolore, né affanno, né fatica.  

 

 

                          

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Quando eravamo ragazzi, a Reggio Emilia, tutte  le feste coman-date, ma dico proprio tutte, passavamo il pomeriggio a casino. 

Natale, Pasqua, Capodanno, Befana, Ferragosto no perché  andavamo chi al mare chi in campagna, i Santi sì, i Morti no, per rispetto.

Ma sui Morti era aperta la discussione. “Dai, facciamoci almeno una scappata, tanto per tenerci allegri. Non andiamo neanche in camera, un saluto alle ragazze e via”. “No, devo accompagnare mia nonna al Cimitero, a salutare il Nonno, non ho tempo”. “Beh, ma alla sera si può fare; così, per tirarci un po’ su. “ Ma se ben ricordo (non mi vorrei sbagliare) il compromesso sui Morti non si trovò.

I casini di Reggio erano in remote traverse fra Via Emilia San Pietro e Viale Monte Grappa. Il migliore era in Via Cavagni, in fondo, verso un muro che faceva della strada un vicolo cieco.

Era amministrato da una tenutaria cortese e quasi colta, che ovviamente da giovane aveva esercitato nobilmente la professione.

“Ragazzi, non fate casino”, ci ammoniva, “sennò vi chiedo le carte d’identità”. Infatti, per entrare bisognava avere almeno diciotto anni, e di noi quasi nessuno li aveva. Certo non io: ma li dimostravo. “Te, bel ricciolino, bada che lo dico alla tua mamma. Anzi, faccio come a scuola, le scrivo sul diario che devi venire accompagnato. Dalla mamma, ma meglio dal tuo papà. Che rischi mi fate correre: se viene la polissia o la milissia, mi fanno chiudere il locale”.

“Ma figurati, ieri ci abbiamo visto il Federale, ieri l’altro il Questore, ti fanno una pippa a te, mo cosa ci racconti”. 

Era vero. Ogni tanto la maitresse ci chiudeva tutti in una delle due sale, sbarrava la porta che dava sullo scalone e nell’ingresso si faceva buio e silenzio. Si sentiva soltanto lei, che accompagnava alla porta il privilegiato e lo salutava rispettosamente: “Buonasera,

alla prossima settimana, sempre a sua disposizione, è stato contento? Tanti saluti alla sua signora!”

“Orca, chi sarà?”, ci chiedevamo noi. “Brum, bruum!” Senti la moto Guzzi, questo è il Seniore della Milissia!” “Ruang, ruang, zzzz!”. “Questa è una berlina grossa, sarà del Questore”. “Sss, sciu, brrr...” “Questa è proprio silenziosa, lenta... Dev’essere un prete!” “Sicuro, è il Vescovo”, malignavo io.

“Ragazzi, dateci un taglio”, ci sgridava rientrando la Palmira, o la Desolina, o uno di quei nomi tipici da matrona. “E decidetevi, andate in camera, flanellisti che non siete altro!”

Far flanella, nel lessico famigliare del casino, significava star dentro a veder le ragazze, al caldo, magari allungare una tastata a una bella di passaggio e non andare ‘a consumare’.      

Effettivamente tiravamo al risparmio, quelle marchette le risparmiavamo sulle modeste “paghette” che allora i genitori ci davano. Io chiedevo a mia nonna di allungarmi un po’ l’argent de poche. “Quanto vuoi?” “Ma dammi due lire.” “Due lire? Ma te le ho appena date l’altro giorno... Va beh, ma non spenderle mica tutte  in una volta!” 

Io approfittai più volte della tendenza culturale della Signora. Oltre che i miei, qualche volta le portai libri della biblioteca del Nonno.

Le portavo roba un po’ pretenziosa, ma indicata: “I fiori del male”, di Baudelaire, le posie di Verlaine, e una volta tutto Gerard de Nerval. “Eh”, brontolò lei, “questo non lo conosco proprio micca”. “E’ un grande poeta, fidati”, l’assicurai. “Questo vale una doppia”. “Una doppia, Rosetta, a questo poetino!” , ordinò la Signora.  “Trattamelo bene, che mi sta rifacendo una cultura!”

La doppia per noi era già tanto. Poi c’era il “quarto d’ora”, che veniva deciso sul campo, dai due protagonisti. La ragazza suonava il campanello una volta; per la mezz’ora, due volte, e quello era il massimo per noi concepibile. Quando la signora diceva, trionfalmente: “Un’ora!” scoppiava un applauso. Era una specie di festa generale. Doveva essere certo un gran signore, uno che si permetteva un’ora. “Mo chi sarà mai, il Conte Terracchini? Il Barone Franchetti? Il Contino Scapinelli?” (Poverino, questo divenne un grande pilota collaudatore e cadde sull’aeroporto di Reggio con il primo caccia RE-2001).

“Ma cosa avrà mai da fare uno in un’ora di camera”. “Poverina, chissà lei cosa dovrà inventare”,  ci chiedevamo con rispetto.     

Quando scendeva a terra, la ragazza era accolta da un applauso. Qualche damerino le offriva una coppa di spumante (allora lo champagne non c’era) e le diceva: “Ma cosa gli hai fatto ?” “Niente”, rispondeva “è solo che ce l’ha meglio di te!”. 

Il giorno della Befana, noi ragazzi arrivavamo con i regali.

“A dir la verità”, dicevamo alla maitresse, “noi li portiamo a te, ma sei tu che ce li dovresti portare a noi”.

“Già, come se fosse niente farvi entrar dentro contro il regolamento!”

“Palmira”, le dicevo io , “stanotte ti ho visto quando sei entrata per il camino. Eri tutta nera, mica elegante e profumata come adesso!”

“Sei proprio un birichino, un petit cochon e un taccontafavole”, rispondeva ridendo.

“Ah, si? Guardate qua cosa mi ha portato!” E mostravo agli astanti

una scatola di preservativi, che allora si chiamavano Goldoni o Guanti di Parigi. “Una scatola intera di Holla, il Guanto che non molla!” Naturalmente, li avevamo comperati tutti insieme con una colletta, perché la spesa era troppo grossa per ognuno di noi.

Il Gran Finale consisteva nel gonfiare tutti gli Holla e metterci a giocare a pallavolo. “Basta, deficienti, fateli a scuola questi scherzi, a quelle p... delle vostre proffe di latino!”, gridava la Signora, sostenuta dall’applauso corale delle ragazze.

Che tempi. Poi entrai al giornale della città, il vecchio direttore mi dava seimila al mese, mi sentivo un milordino, lasciai stare la nonna e i libri del nonno e una volta la settimana mi facevo la mezzora.

                                                  

 

VENERIO   CATTANI

(www.veneriocattani.it)