LA   PASQUA

 

Racconto di

 

VENERIO   CATTANI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Dove sono finito... Dove mi hanno cacciato…”, si chiese sommessamente Gesù, risvegliandosi dal torpore della morte.

“ Eh, aveva ragione mio Padre, che mi consigliava di evitare questa spiacevole storia. Prima di tutto, mi hanno fatto un male terribile. Che criminali, gli uomini! Con la loro mente malsana, inventano supplizi incredibili; nessun altro animale arriva al loro sadismo, macchè lupo, macchè leone.”

Gesù sussurrava tra sé, nel buio della tomba.

“La croce! Come si può essere tanto malvagi da inventare una croce di legno, come strumento di esecuzione! Non basta un buon colpo di spada, non basta la mannaia, per spiccare una testa dal collo? La croce! Ti issano lassù, t’inchiodano; e da sotto ti scherniscono, se chiedi per pietà un goccio d’acqua ti danno una spugna d’aceto, t’infilzano il fegato con la picca, e qui li devi anche ringraziare perché ti fanno la grazia di affrettarti la morte… Io lo sapevo che gli uomini si comportavano male, ma fino a questo punto… Bisogna provare per credere, ed è quello che ho fatto. Neppure mio Padre, Nostro Signore, che pure era molto pessimista se ne rendeva esatto conto.

Quando gli esposi il mio progetto, di scendere sulla Terra e farmi uomo, scosse la testa e osservò: “Sei matto; chi te lo fa fare? Ma soprattutto, che te ne importa? Io li ho costruiti, in un giorno di ozio, e subito hanno cominciato a pensare, dire, fare, sciocchezze.

Gli è venuto in mente che, se io li avevo fatti, dovevo per forza averli fatti a mia immagine e somiglianza; come se non avessi potuto immaginare un altro modello, o un'altra specie animale, o anche semplicemente di farne a meno. Dopo quella disgrazia dei dinosauri (sempre migliori degli uomini, intendiamoci) basta, solo piante, fiori, minerali: la Terra avrebbe vissuto benissimo.

E invece questi, subito a fornicare, stuprare, rubare, ammazzare…

E dire che io gli avevo perfino inviato, per mezzo di quello straordinario Mosè, un testo di legge! Come parlare ai sordi.

E perciò non prendertela calda, non vale la pena. Sto provando a

trapiantare sulla Galassia di Sirio una nuova razza vivente, ho

incrociato parecchi angeli, dei più buoni. Certo, sono unisex, quindi ci metteranno un po’ a figliare, ma ci vuol pazienza, abbiamo tanto tempo davanti, dietro e intorno a noi”.

“No, Babbo, gli ho detto.Fammi prima provare se sono proprio incurabili, questi diavoli d’uomini, e dopo passeremo ad altri esperimenti. Dammi solo una trentina d’anni: niente, rispetto all’eternità. Però, non credevo che fossero talmente carogne”.

Gesù si guardò intorno, nella tomba era buio ma lui ci vedeva egualmente.

“Bella”, approvò. “Ricca. Dev’esser stato quel Giuseppe d’ Arimatea, di Rimathein, quando torno su da mio Padre lo farò nominare santo, per il disturbo che s’è preso. E anche per il rischio che corre: lui non è dei nostri iscritti, è un simpatizzante nascosto. Ora è senatore del Regno di Giuda, consigliere  comunale di Gerusalemme, ma se scoprono ch’è un cristiano rischia di non essere rieletto”.

Provò ad alzare la pietra tombale. Non ci riusciva.

“Giuseppe ha fatto davvero costruire con ricchezza; guarda che pietre!” Si tolse la Sindone di dosso, stava sudando. Il punto era che in lui si confondevano continuamente le due nature, l’umana e la divina. Come uomo, non sarebbe certamente riuscito a sollevare la pietra; come superuomo certamente sì. Ma per uscire dalla dimensione umana aveva bisogno di particolare concentrazione: era stato per troppo tempo un uomo, la sua natura e la sua forza erano umane.

E infatti, non appena rientrò nella dimensione divina, gli bastò toccare la pietra con l’indice, che l’alzò. Poi la spostò, la rovesciò sulla destra, e finalmente potè erigersi, in piedi.

“Oh, che bel sole!”, esclamò.

Uscì dalla tomba, ch’era posta alla base del Monte Calvario, monte, in realtà una collinetta appena fuori dalla città. Era in effetti un sole primaverile, pasquale, festivo. La strada d’ingresso a Gerusalemme era ancora cosparsa dei segni della festa, rami di palma e d’ulivo, e anche molta immondizia. 

“Saranno ritornati all’Orto di Getsemani”, pensò. “Pietro, Matteo, Marco e tutti gli altri… meno Giuda Iscariota, naturalmente. Che farabutto… ma che dico, che disgraziato. Chissà dove sarà finito, a quest’ora”.

“S’è impiccato”, gli suggerì il Padre, dall’alto. Da Lassù Egli vedeva tutto, mentre Gesù era limitato dall’orizzonte, veniva informato dal Padre sulle onde magnetiche.

“Ecco, vedi”, dialogò il Figlio col Padre. “Le solite cose da uomini, il solito modo di ragionare sragionando. Mi ha tradito, ma forse non l’ha fatto solo per i soldi, non ne aveva bisogno. E’ che la pensava diversamente, negli ultimi tempi non mi credeva più, vedevo una luce ironica nei suoi occhi. Forse voleva una nuova Chiesa, o un nuovo Capo, forse il fatto stesso che fossi figlio tuo

non gli piaceva, riteneva che la religione fosse cosa da uomini, non da Dei”.

“Era una carogna”, sentenziò il Padre. “Un vero uomo, e quindi  una carogna. Te l’avevo detto, sei troppo sentimentale, fragile, trovi sempre una ragione in quel che fanno gli altri, anche i peggiori delinquenti. Sei un garantista, con questi ci vuol altro”.

Sulla via di Getsemani, a un bivio Gesù si fermò per un attimo, sovrappensiero,  poi svoltò. “Devo salutare la Mamma, poveretta”,

sospirò”. Quanti dispiaceri le ho dato. Da bambino ero bravo, lei era  contenta. Poi quando mi diedi a predicare, tutto cambiò. Sempre fuori casa, a far miracoli. La gente le raccontava, la esaltava: Che figlio avete! E’ un santo, un profeta. Ha risanato quello, ha resuscitato quell’altro, compie  cose mai viste.    

Ma a lei non piaceva. Basta, mi diceva, smettila; finirai male. E ora ti metti anche contro il Sinedrio, saranno guai. Fermati a Nazareth, insegna al liceo, e poi sposati, ci sono tante belle ragazze, sane di corpo e d’anima, mi darai un nipote, bello e biondo come te. Ma io niente, ero posseduto dalla mia missione…”

Maria s’era rifugiata in casa di una amica. Quando lo vide arrivare, seminudo e piagato per la stretta via, svenne.

“Gesù, ma allora non eri morto”, gli disse rinvenendo.

“Mamma”, rispose Gesù con pazienza, “proprio tu, dovresti saperlo… Sono resuscitato, io non posso morire, ho voluto provare solo per un poco e non è stata una sensazione piacevole, t’assicuro”.

“E va bene”, accondiscese la madre, scuotendo la testa. Non era mai stata del tutto persuasa delle visioni e delle esibizioni miracolose del figlio. “Se me l’avessi detto, avrei pianto di meno. Ora spero che ti fermerai e ti metterai tranquillo per un po’. Lavati, riposati, rivestiti, stai qui con me”. 

“Madre, non posso; lo sai. Sono venuto per salutarti. Devo vedere

i compagni, e poi ripartire. “E per dove?” chiese la madre, stancamente.

Il Figlio alzò il braccio destro, e levò l’indice verso il cielo.

 

 

 

 

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“Ohi!”, esclamò la ragazza di Perugia, sollevando la testa dall’uovo di cioccolato che stava incartando. “Sono stufa.

Questi giorni di Pasqua sono impossibili. Anche gli altri giorni si lavora duro: per Natale, i Panettoni, per la Befana, le calze piene di cioccolatini, per il primo d’aprile, i pesci di cioccolata, ora hanno inventato anche San Valentino, i cuori di marzapane, e perfino per i morti le ossa di zucchero; e poi gli agnelli, le campane, le pecore, le mucche, e le colombe! Quante colombe hanno fabbricato queste mani! La gente ne inventa sempre una e gli industriali poi, per far soldi…”

“Beh”, annuì la ragazza vicina, “meglio così, almeno si lavora tutto l’anno. Mica come ai tempi delle nostre madri, Natale, Pasqua, poi tutti a casa”.  

“Giusto”, convenne la prima ragazza, “si lavora un bel po’. Si lavora tanto che alla sera ho la schiena a pezzi e non ho più voglia di andare in discoteca”. 

“Tiè, tieni questa, infilala nella pancia dell’uovo.“Era la “sorpresa”.

“Eh, è proprio una sorpresina da niente. “Consisteva in un piccolo portachiavi d’argento, o d’argentone; un’automobilina, copia abbastanza fedele della Mercedes coupè. “Con quel che costa quest’uovo…”

“Già, con quel che costa quest’uovo loro si fanno la Mercedes vera. Il figlio del proprietario ne ha una uguale uguale. L’altro giorno mi è passato accanto, quando entravo per il turno del pomeriggio, ha sgassato e mi ha detto: “Bella mora, quando finisci stasera ti aspetto, ti porto in pizzeria e poi al Lago a ballare”.   

“Ohi,…e tu cosa gli hai risposto?”

“Gli ho risposto di sì, vedi bene, cosa gli dovevo rispondere?”

“Brava, lo so che hai del fegato; e come è andata?”

“Bene è andata. La pizza, la discoteca e poi anche una bella scopata. Bello, sul sedile della Mercedes: quanto spazio, si tira tutto indietro, è di pelle morbida, nera, proprio una scopatina di lusso”.

“Beh, e lui com’è? E’ un tipo discreto, ma come scopatore, dico...”

“Non c’è male, niente di eccezionale. Sai come sono questi uomini, hanno tutti lo stile dei futuri mariti: un po’ di storie, molto contorno..., ma insomma bene”.

“Eh, ci vorresti fare un pensierino...”

“Perché no. Sai, mi ha fatto una proposta per la Pasquetta. Ti porto a Roma, mi ha detto. Ostia, ti porto a Roma; sei brava. Con questa, andiamo e torniamo. Sai, sulla strada di Spoleto c’è un bell’alberghetto: al ritorno ci fermiamo lì tutta la notte, e la mattina dopo ti porto in fabbrica in orario”.

“Ha un po’troppa fretta”.

“Sì, ma io ci provo. Se va dritta, bene, se no intanto mi diverto un poco”.

“Ragazze, forza”, disse la caposala. “Dai, che siamo quasi alla fine. Che poi andate a Messa per Pasqua, a confessare i vostri peccati, beate voi che li potete ancora fare”. 

 

 

 

 

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Anche a Tel Aviv era tempo di Pasqua, ebraica ovviamente. Le due ragazze uscirono dal liceo e si avviarono a casa, allegre per i prossimi giorni di vacanza. Erano due sorelle, avevano fama di essere le meglio piazzate del liceo, alte e flessuose.  

Era marzo, c’era un bel sole. Sorpassarono la prima fermata del bus: era troppo pericolosa, la settimana prima il solito kamikaze aveva fatto saltare il pulman, con dentro un’intera scolaresca. C’era rimasta anche la loro amica Deborah . “Poverina, lei non farà più Pecash” , disse la ragazza bruna. “Già”, sussurrò la ragazza bionda . “Noi siamo fortunate, speriamo di arrivare ad Hannuccà”, aggiunse ridendo. Era solita a queste forme di spirito un po’ pesante, un umorismo nero, lei diceva adatto ai tempi.

“Smettila”, disse l’altra. “Tu sei sempre stata un po’ miscredente, indifferente”. 

“No, semmai poco devota”,  precisò la bionda. “Del resto non mi

pare che ci sia un gran motivo di ringraziare il Padreterno, di questi tempi”.

“Anzi” replicò la mora. “Ogni giorno che passa dovremmo ringraziare Dio, è un giorno di più e siamo ancora qui”. 

Si fermarono davanti alla vetrina di un negozio di jeans: “Belli”, osservò la bionda. “Passata la Pecash ne comprerò un paio, ne ho bisogno. Guarda qua, sono tutti lisi”, mostrò i fianchi alla sorella.

“Ti credo”, rise questa. “Passi la sera a strusciarti sul prato con Symon!”

“Già, una volta. Chi ci và più per prati, a buscarsi una raffica, o una pugnalata! Tutt’al più, qualche volta sulla spiaggia, è più difesa. Ma che fatica, far l’amore sotto gli occhi delle sentinelle”.   

“Io e Raffh lo facciamo al cinema. E’ difficilissimo, un’impresa e poi nemmeno più quello è sicuro”. 

“Dopo Pasqua ci facciamo coraggio e riproviamo la discoteca. Hanno finito di ripararla. Ma è triste: a parte i ricordi, ci  hanno messo una lapide per onorare i trenta ragazzi morti, con una lampada davanti, una tristezza infinita, la voglia ti và via”.  

Salirono alla fermata successiva, c’era meno gente. I passeggeri

si sforzavano di far la faccia ilare, ma si vedeva che molti erano tesi, e gli altri rassegnati. A ogni fermata, gli sguardi si appuntavano su chi saliva. Salì un ortodosso, cappello nero e riccioli alle tempie: era giovane e a suo modo persino bello.

L’omone gli si accostò, e senza dar nell’occhio lo palpò sui fianchi; poi con un mezzo sorriso disse : “Scusa”.

A casa la cena era quasi pronta: il Seder, la cena di Pasqua, Pecash. Aiutarono la madre a mettere al forno l’agnello. Il pane azimo, le verdure, il vino Kosher e la salsa charoset, furono portati sul tavolo dalle ragazze.     

Poi la madre estrasse dal forno l’agnello arrostito e tutti. Uomini e donne, si sedettero al tavolo: il padre, il  fratello (in divisa militare) la madre, le due ragazze.

“Ricordatevi”, disse il padre. “Questa sera tutti coi gomiti sulla tavola”. Si erano lavati le mani, e il padre  recitò la formula della benedizione. 

Intinsero il karpas nell’aceto, il sedano e poi le altre verdure. Poi il padre divise le azime, e ne infilò una sotto la tovaglia, per il dopocena, come voleva la tradizione. Alla ragazza bruna queste antiche storie davano fastidio, le sopportava a fatica.

“Che bisogno c’è”, brontolava dentro di se, “di tutte queste fisime. Siamo Ebrei, e basta. Appena sposo Symon, me ne vado da questa vecchia  baracca e la faccio finita con queste inutili cerimonie”.

Il padre stava leggendo l’Haggadà. E questo la interessò di più; si commuoveva sempre quando il padre diceva: “Quest’anno siamo qua, asserviti, ma l’anno prossimo saremo liberi in Israele”.

Egualmente, si annoiò ai racconti dell’Hallel, i salmi e le filastrocche, il gatto, il bastone, il capretto e tutto il resto; mentre invece si rincuorò, anche perché era la fine, all’augurio: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.

“Che teste abbiamo noi Ebrei”, sussurrò alla sorella. “Sono migliaia d’anni che ci raccontiamo questa storia. Ora ci siamo di nuovo, dopo duemila anni, ma riusciranno a mandarci via”.

“Beh, sarà un po’ dura stavolta. Dovranno ammazzarci uno dopo l’altro. “Infatti, sono sulla buona strada”, concluse la sorella scettica.

La settimana dopo, presero il bus sottocasa, per tornare a scuola.

Era il primo d’aprile. “Una giornata adatta agli scherzi, speriamo non quelli brutti”, sorrise la bruna alla bionda.

“Mah, l’anno è quasi finito, siamo alla maturità. Poi la smetteremo con questa strada e questo tram”. “Già, l’Università non ha ancora subito brutti attacchi. Speriamo non comincino quando ci andremo noi”.

Salì un rabbino, ortodosso, l’omone lo squadrò, con due dita gli diede una tastatina sui fianchi. “Scusa”, sussurrò.

Le ragazze scesero alla fermata davanti al liceo, perché erano in ritardo. Con loro e altri studenti scese anche il rabbino. Fece col capo un segnale  alla ragazza incinta che sembrava aspettarlo. Quella si mise una mano nel corpetto e fece “zip”, il tritolo fece bam”e le due sorelle, la bruna e la bionda, saltarono in aria.

La Pasqua era finita.

 

 

 

VENERIO   CATTANI

(www.veneriocattani.it)