I Saggi

 

Il pensiero politico di Camillo Prampolini

 

Ringrazio gli amici della Cassa di Risparmio di Reggio, per avermi invitato a presentare l’antologia prampoliniana di Ruini e Baraz- zoni.

Mi congratulo con i promotori e i curatori della bella pubbli- cazione. Forse, sarebbe stata più adatta all’occasione la parola di uno storico professionale, quale io non sono, anche se scrivo di storia, ma da politico.

E’ quindi per me, oltreché un onore una opportunità che si inqua- dra nell’intenso lavoro che vado facendo per la rivalutazione del pensiero e della storia del socialismo riformista.

E allora, dirò subito che per questa celebrazione è stato scelto il momento buono. Il tempo sta cambiando, e dopo lunghi anni di oscurità, e dopo le inevitabili cocenti delusioni che seguono sempre il crollo dei miti, la cultura del riformismo e della democrazia sta ritornando ad affermarsi.

Proprio nei giorni scorsi a Roma, riproponevo il pensiero e la vi- cenda di Ignazio Silone, appunto nel corso di questa ripresa dell’idea riformista.

A prima vista la differenza tra i due personaggi, Silone e Prampoli- ni appare notevole. Diversa la formazione politica, la formazione culturale, il linguaggio. Diversi gli ambienti, i caratteri, la vicenda politica dei due uomini.

Le due epoche, quella di Prampolini e quella di Silone, sono di pochi anni distanti e uno muore mentre l’altro entra nella fase più dura del suo impegno politico, eppure la distanza temporale sembra enorme.

E infatti, c’è di mezzo la guerra, e c’è di mezzo quella che non è stata una parentesi, ma una duratura affermazione delle ideologie totalitarie, della quale stiamo ancora scontando gli effetti, e che è battaglia tutt’altro che conclusa, anzi entra ora nella dirittura finale.

Ma al di là delle differenze evidenti, quante affinità sostanziali tra i due, tra le sorgenti del rispettivo pensiero e la stessa avventura umana dei due personaggi. La stessa formazione borghese, ma il comune ambiente contadino. La stessa spinta egualitaria e la stessa visione evangelizzante del socialismo. La medesima coerenza e l’assoluta integrità morale. La stessa battaglia, contro l’accerchia- mento, la cortina del silenzio, la campagna di disprezzo e la materiale persecuzione da parte dei totalitarismi. E adesso tutti dicono: come aveva ragione Silone, come aveva ragione Prampoli- ni.

Veniamo ora al volume di Ruini e Barazzoni, e a Prampolini.

Condivido le tre osservazioni della premessa di Nelson Ruini, sulle cause della sottovalutazione del pensiero politico di Prampolini. Esse sono: la mancanza di un’opera organica, per cui il pensiero va desunto da lettere, articoli, discorsi sparsi; la scarsa attenzione della cultura italiana moderna, per il periodo positivista; la condanna idoeologico-politica dei comunisti.

Ma vorrei aggiungere alcune osservazioni.

La prima, di ordine pratico. Il compito dei primi socialisti, in Italia, fu di propagandare e di organizzare. Ciò non lasciava loro molto tempo allo studio, e tantomeno all’elaborazione di opere organiche.

L’uomo politico deve essere anche un organizzatore di cultura, e per far questo deve avere fermo retroterra culturale; ma difficil- mente può produrre cultura egli stesso. Solo particolari condizioni di stasi a cui sia costretto, in prigione, come Gramsci, in esilio, come Lenin, possono fare di un militante un teorico o uno storico. Normalmente, l’uomo politico deve scrivere, e pensare, sul tamburo della polemica.

Quando dico produrre cultura, intendo dire produrla in modo organico, perché anche organizzare, trascinare masse, scrivere sul giornale, è fare cultura.

C’è una lettera della Kuliscioff a Tarati, nella quale osserva che tutti si lamentavano per una momentanea assenza di Critica Socia- le, appunto perché rimaneva un vuoto culturale e commentava: "Se leggessero però la prosa di Camillo, scritta coraggiosamente senza autogonfiature, avrebbero già il dirizzone da prendere senza bisogno della Critica Sociale".

Evidentemente l’Anna aveva della cultura un’idea che avanzava il suo tempo. E’ mia impressione che il comunismo abbia a suo modo rivalutato le forme della cultura accademica.

Questa tendenza mi è sempre sembrata evidente in Gramsci e in Togliatti. E anche in questo, il comunismo è erede della cultura classica italiana, mentre il socialismo è più affine alla cultura politica europea.

E infatti, la carenza che Ruini indica in Prampolini è di tutto il socialismo, italiano ed europeo, della prima epoca.

In fin dei conti, gli stessi inglesi della Fabian Society producono opuscoli e dispense, e i francesi pamphlets (a parte la grossa ma discutibile Storia della rivoluzione francese di Jean Jaurés). Diverso è il discorso per i tedeschi. E tuttavia, anche tra di loro i produttori di pensiero sistematico, come Bernstein e Kautsky, non sono i dirigenti effettivi del Partito (anche se Kautsky fu per pochi anni deputato e sottosegretario). Tuttavia, hanno del Partito una funzione pontificale, e sono gli estensori del programma di Erfurt.

C’è da lamentare, piuttosto, che il legame tra pensiero e politica instauratosi in Germania e in Austria, non si sia verificato in Italia. Come è riconosciuto, il livello storico e filosofico di Antonio Labriola è di rilievo internazionale. Tuttavia, il distacco accademi- co, in lui come in Croce, ne impedì il rapporto efficace con la politica attiva. Alessandro Schiavi riporta, nel suo prezioso piccolo saggio su Prampolini, la lettera di Labriola, a proposito della nota indecisione di Prampolini ad assumere la direzione del giornale "Lotta di classe" a Milano.

"Dovete porre la questione sopra un terreno obiettivo. Ci sono i mezzi per fare 8un giornale serio, che duri? Fare a Milano qualcosa come "La Giustizia" farebbe ridere…

Io intendevo dire che il socialismo, come è ora in Italia nella testa dei piccoli borghesi e degli operai, non può generare una politica. E’ affatto negativo… Vedrete al prossimo congresso di Genova! La solita fisima della giacca contro il soprabito e si lascia alle singole associazioni la libertà di partecipare o no alla politica (e quindi anche di vendersi). Da quindici anni polemizzo per lettera col Turati e col Croce, ma senza frutto".

E’ una lettera tipica della mentalità degli accademici, di ieri e di oggi, che vedono al centro del mondo la lettera o la pagina di rivista che si leggono l’uno con l’altro. Ci saranno i mezzi o non ci saranno? Sarà una cosa seria? Si può fare o no politica? Per fortuna Prampolini non era Labriola, diversamente starebbe ancora a pensarci e non si sarebbe mai vista l’ombra del socialismo reggiano, ma solo i fumi del socialismo napoletano.

Significativa invece la lettera di Anna Kuliscioff, con la quale implora Prampolini di andare a Milano a dirigere il giornale, con l’argomento persuasivo che "ne guadagnerebbe anche la vostra Reggio", e anzi gli propone perfino di provare "per ora stando a Reggio". "Ho tanta fede che con voi il giornale fiorirà e prenderà una diffusione immensa".

Quanta fede e magari quanta illusione, ma soprattutto quanta stoffa politica in Anna Kuliscioff, e quanta poca nell’intelligenza accademica di Antonio Labriola.

A Prampolini per quanto delicato e nevrotico, non mancava il coraggio di fare "La Giustizia", o prima, di scrivere su un giornale del quale suo padre si vergognava, come "Lo Scamiciato".

Secondo Labriola, a Milano "La Giustizia" sarebbe stata ridicola. Prampolini avrebbe potuto rispondergli come rispose a suo padre a proposito de "Lo Scamiciato": "Se ci scrivo io vuol dire che non è un cattivo giornale".

E’ questa la forza, e la presunzione nascosta sotto la dolcezza apparente della buona educazione, che fa di Prampolini un politico.

Non si può fare una colpa ai riformisti italiani se quando ebbero il tempo per scrivere sistematicamente, erano diventati troppo vecchi e troppo amareggiati per farlo. Esemplare la vicenda di Prampolini che a Milano dovette fare il contabile presso un antiquario amico per sopravvivere.

C’è un bel ritrattino di Antonio Valeri, del ’45, scritto così: "nel retrobottega adibito ad ufficio, per otto ore al giorno, un vecchio signore, magro, austero, dal viso luminoso incorniciato da una barba bianca in piedi davanti a quel leggio con la stessa nobiltà, con lo stesso portamento cavalleresco che aveva a Montecitorio, … umile e mai così grande".

La seconda osservazione di Ruini riguarda la sottovalutazione del positivismo.

Non so cosa ne pensino Ruini e Barazzoni, ma per quel che ne giudico io, del positivismo italiano rimane poco da salvare, tranne Ardigò e, nel suo campo, Lombroso. Ma soprattutto, il positivismo porta responsabilità negative nel campo politico; dove, fin dall’inizio, si traduce in sociologia.

E’ vero che i socialisti italiani furono assai più positivisti che materialisti storici; anzi, che nella prima epoca scambiarono tranquillamente e spesso il positivismo per marxismo. Era la moda culturale del tempo e non solo in Italia ma anche in Francia e in Inghilterra. E infatti, come si legge nelle pagine di Prampolini, essi si rifacevano molto più a Spencer, che ai positivisti italiani.

Molte delle cose scritte in quegli anni anche da Prampolini, non possono non apparire ingenue alla cultura d’oggi; ma devono essere lette secondo la temperie culturale di allora.

Ciò che è strano, è che l’attualità del ’68 e del post ’68, nel momento della maggiore espansione della cultura comunista, abbia ripreso molto del determinismo e del meccanicismo positivista di allora. Ad esempio, il pensiero sulla criminalità, come fenomeno esclusivamente sociale, che sarebbe stato guarito dal benessere e dal progresso, è comune a Prampolini come a Turati, come a tutti i socialisti del tempo; ed è incredibile che sia stato ripreso pari-pari dai moderni di Magistratura democratica, di Psichiatria democratica, e così via. Come se la Storia non avesse dimostrato che l’alfabetizzazione, l’informazione, il benessere, l’assistenza, non bastano a curare né la criminalità né la pazzia, né alcuno dei mali che sono insiti nella natura aggressiva dell’uomo; in ogni tempo e ad ogni livello sociale.

In questo senso, il crollo dell’utopia dell’"Uomo Nuovo" che avrebbe dovuto essere creati dal comunismo sovietico, è anche il crollo dell’utopia dell’uomo nuovo di tutti i socialismi.

Ciò mi ricorda le giovanili discussioni in qualche vecchio caffè di queste parti con l’indimenticabile Silvio D’Arzo-Comparoni, che mi diceva: "Ma tu credi veramente che una società socialista possa guarire i sentimenti profondi dell’uomo, come l’odio, l’amore, la gelosia, la pazzia, la solitudine?". Dove si vede che il romanziere è spesso più vicino alla conoscenza dell’uomo, che il politico.

Comunque, il fatto che fossero dei positivisti, non significa affatto che i riformisti avessero un "basso profilo culturale", come sempre hanno detto i comunisti dei socialdemocratici.

Piuttosto, era un efficace coefficiente e di relativismo e di buon senso, ciò che mancherà del tutto ai marxisti ortodossi e ai leninisti. In che cosa consiste, allora, la grandezza di Prampolini? Più che nella sistematica, nell’originalità del pensiero politico, nella coerenza delle convinzioni, nel metodo politico e nelle opere.

Leggendo le introduzioni di Ruini e di Barazzoni, mi sembra di capire che il proposito di questa pubblicazione, sia quello di rivalutare la figura di Prampolini come pensatore politico, come ideologo. Giustissimo proposito perché, come appunto essi lamentano, pesa su Prampolini la sua stessa leggenda di predicatore, di apostolo, insomma di evangelizzatore; e la leggenda e la geografia, ne offuscano l'aspetto di maestro.

Ora, il mio giudizio (per quel che vale) è che Prampolini è stato un pensatore e un ideologo; non è stato, e non poteva essere, un teorico sistematico. Del resto, su cosa si intenda per sistematico, la polemica è aperta al punto che Berlinguer e Bufalini, forse perché presi da un tardivo raptus antileninista, hanno recentemente negato la natura "sistematica" nel pensiero di Lenin. In tal modo avremmo dopo il Marx non marxista, anche il Lenin non leninista. Io mi permetto di continuare a considerare Lenin un sistematico, oltretutto perché ha fondato un sistema, addirittura di dimensione mondiale; e lo ha fondato in unità di teoria e di prassi, anzi ha adattato la prassi alla teoria, ciò che appunto ha dato luogo al secolo dei gulag.

Ma la natura di pensatore e ideologico, non può essere discussa in Prampolini. Egli fonda una scuola che ha caratteristiche sue e definite, che si incardina nella pratica, che produce discepoli, che crea un’opinione stabile. Che poi il pensiero prampoliniano non si estrinsechi a livello teorico in modo sistematico, secondo un metodo di analisi ben individuato, senza la pretesa di coprire tutto lo spettro dei problemi, da quelli giuridico-istituzionali a quelli economici, questo è un altro discorso.

:a l’importanza di un pensiero politico si deduce dalla forza delle radici che mette: quello è il suo termine di paragone.

Quanti teorici ha avuto il socialismo, e quante intuizioni geniali, da Sorel a De Man; eppure, nessuna scuola ha avuto attecchimento come il riformismo padano, e nel suo profondo interno, il riformismo reggiano.

Per una definitiva valutazione del pensiero prampoliniano, dobbiamo attendere la seconda parte della raccolta di Ruini e Barazzoni. Questa prima fermandosi al ‘900 , comprende la parte iniziale più predicatoria e più ingenua, degli scritti de "Lo Scamiciate" e de "La Giustizia".

Importantissima, si intende e alla fine della quale il pensiero prampoliniano è già come nota Barazzoni, un pensiero compiuto.

Mancano però le polemiche successive, col massimalismo, il comunismo e il fascismo, che devono darci non solo la maturità, ma come dire, la controprova della coerenza prampoliniana.

"L’Evangelismo" di Prampolini è stato confuso a volte con una specie di socialismo cristiano, di sottintesa religiosità, di mitezza, e addirittura di bonomia. Releggendolo mi sono confermato nella persuasione che in Prampolini questi tratti esistevano, ma erano soltanto i tratti più distintivi e apparenti, non quelli più sostanziali e profondi.

La stessa Kuliscioff lo chiama spesso: "il santo". Può essere che ritrovasse in lui qualcosa di tolstoiano; e questa impressione di mitezza può anche provenire dall’educazione familiare e dalla dolcezza materna. Ma, da reggiano, io conosco bene l’apparente mitezza dei reggiani, così come l’apparente bonomia degli emiliani.

Ho conosciuto anche, per tradizione familiare, gli ultimi epigoni prampoliniani, come Bellelli, Zanasi, Rinaldi, i vecchi della mia famiglia e tanti altri. Erano certamente dei giusti, ma non erano dei miti e credo che di evangelico avessero soprattutto la barba e il costume interiore e familiare. Ma se è permesso un linguaggio corrente, erano dei "duri". Duri con gli altri, e specialmente con se stessi.

Per Prampolini, l’evangelizzazione era un metodo. Il suo obiettivo era prima di tutto "il contadiname", anche se fu l’ultimo a essere conquistato. Ed egli sapeva come parlare ai contadini, intendendosi per contadini gli abitanti del contado, in gran parte braccianti e commercianti. E’ da ricordare che egli incominciò a parlare in pubblico relativamente tardi, dietro la spinta di Andrea Costa. Egli parlava come scriveva e scriveva come parlava; che poi è rimasto il solo modo di farsi capire dalla gente.

E il solo modo di farsi capire allora, era di parlare con lo stile dei preti; quello che i contadini conoscevano.

Egli parte sempre dal "fatto", per risalire al principio. Questi "fatti" li conosce benissimo: quanto costa "la secchia" di latte, quanto l’affitto per "biolca".

Egli sa come fondare l’Associazione contadina (interessante, e ripreso nel volume, il metodo semi-clandestino che Prampolini insegna); come parlare ai mezzadri, come parlare alle donne.

E il Cristo che rappresenta è un Cristo egualitario e livellatore: insomma è un Cristo da lotta di classe.

La rappresentazione prampoliniana delle lotte di classe non è evangelica; c’è un continuo raffronto tra la condizione dei lavoratori e quelle dei padroni, con il quale egli sfiora, nei primi articoli e discorsi, quell’odio di classe che respingerà sul piano ideologico. C’è una distinzione sempre molto precisa tra buoni e cattivi, e fra i cattivi mette anche i preti.

Anzi, ci sarà un momento in cui distingue tra "preti buoni" e "preti cattivi".

Naturalmente, egli dà della lotta di classe una spiegazione obiettiva, o come egli pretende, scientifica. Come sappiamo, non è "la malvagità dei capitalisti, ma la cattiva organizzazione della società, la proprietà privata""

Perciò non predica "l’odio" ma la "proprietà collettiva".

Altro aspetto tipicamente prampoliano, e del resto di tutti i riformisti del tempo, è il richiamo ai diritti e ai doveri.

I doveri non vengono mai dimenticati. Ma oltre ai comuni doveri verso la società, ci sono i doveri di solidarietà e fratellanza di classe; ed è questo che differenzia nettamente "i doveri" prampoliniani dai "doveri" mazziniani. Come tutti e tre i prefatori, Arfé, Ruini e Barazzoni notano, il riformismo prampoliniano, e del resto tutto il riformismo padano, non fu un riformismo revisionista, ma classista

L’antitesi sfruttati-sfruttatori fu sempre presente, perfino nel sottotitolo de "La Giustizia", "difesa degli sfruttati", così come l’obiettivo della proprietà collettiva.

E’ chiaro dunque che si trattava di "socialismo democratico" e non di socialdemocrazia nel senso attuale e bernsteiniano del termine. La democrazia, per i prampoliniani, era non soltanto il mezzo ma il sistema politico. Peraltro, l’aspetto sociale ed egualitario rimaneva non solo presente ma preminente.

Il confine con l’anarchismo, poi col massimalismo, poi col "sindacalismo" era l’uso della violenza e con i comunisti il mezzo della dittatura, nella convinzione che la dittatura sarebbe diventata fatalmente il fine, come la storia ha poi dimostrato.

Come bene commenta Giovanni Zibordi: "da ciò nacque la leggenda del suo "evangelismo" quasi che la sua propaganda coincidesse con la religiosità cattolica, o cristiana nel senso dei preti: mentre era una religiosità opposta, nello spirito e nelle deduzioni, benché risuscitasse il nucleo umano e sociale del primitivo insegnamento di Cristo". "Religiosa per il suo contenuto morale, onde può bene esser accostata all’insegnamento mazziniano per il largo posto fatto ai valori etici; ma senza nulla di mistico, di quietismo e di mitezza rassegnata…".

Insomma, Prampolini era un Cristo, ma nel senso evangelico delle famose parole: "Io vi porto la guerra, non la pace". Che poi costituiscono, per inciso, la parte più consapevole dell’insegnamento cristiano.

Si rende, a mio avviso, un torto a Prampolini sopravvalutandone le qualità di teorico: egli non ne ha bisogno. La medesima lettera citata da Nelson Ruini, a Napoleone Colaianni, conferma che il pensiero di Prampolini è una mistura di positivismo e di sociologia; quella sociologia che, in alcune lettere a Turati, egli chiama "la nostra scienza". La sua polemica contro i darwinisti, ripete le illusioni allora ricorrenti sullo sviluppo armonioso e scientifico dell’umanità. "E’ dunque, egli scrive, la stessa necessità dell’esistenza, la stessa legge dell’adattamento che spingerà fatalmente gli uomini alla fratellanza, alla giustizia, all’uguaglianza, al socialismo. E valga il vero, non è forse la storia una evoluzione continua verso questa meta?".

Ebbene no, Prampolini, valga il vero che la storia è proprio il contrario: e cioè non mai stata progressiva evoluzione, ma è sempre stata dialettica, e quasi sempre delinquenziale dialettica. Ricordo che in una lontana Direzione del Psi, una volta che Nenni continuava a spiegarci il senso della storia non riuscii a trattenermi e sbottai a dire: "Ma mi sai dire quale è il senso della storia? E perché la storia debba andare sempre avanti a sinistra, e non anche indietro a destra? E perché voi positivisti (definizione che lo offese moltissimo) dovete spingerci la storia come lo svolgimento interminabile in un rotolo di carta igienica?". A ben pensare, è proprio questo modo di interpretare la storia, che porta un Nenni a credere nel ’45 alla fatalità della vittoria del comunismo, o un Mussolini a credere nel ’40 che Hitler sia inarrestabile, e che quindi convenga entrare in guerra insieme a lui. Essi non mettevano in conto quei sussulti volontaristici della storia, per cui subito dopo c’è un 18 aprile, o si trova un Churchill che, contro ogni logica apparente dice: "Beh, voglio provare se vinco io". Il paragone non è irriguardoso, perché ritengo Nenni e Mussolini i più grossi istinti politici italiani di questo secolo.

Dunque, Prampolini era un uomo colto, e come oggi si dice, un intellettuale; semplicemente, non era un marxista ortodosso e non era un "materialista dialettico". Ma questa constatazione non gli toglie nulla. Anzi, il suo fascino e la sua virtù trascinatoria, la sua evangelizzazione e il suo profetismo, derivano proprio da queste sue propensioni culturali, che non sono però contraddizioni. Egli si costruisce in un certo senso un socialismo tutto suo, dove c'è un marxismo (la lotta di classe) e positivismo (il fatale sviluppo della scienza e del benessere), con uno strato esterno di cristianesimo primitivo.

L’importante, è che la miscela sia adatta all’epoca, e che incontri il modo di essere e di sentire dei contadini, artigiani e operai d’allora. Come sappiamo, il politico non è colui che ha ragione (e che non esiste), ma colui del quale, ascoltandolo o leggendolo, la gente dice: "Ecco, è proprio quello che io avevo in mente e non riuscivo a dire". E’ il politico, insomma, inteso come interprete e profeta. Prampolini era appunto questo. Ed è così che si fondano i movimenti politici, la cui definizione scolastica è un fatto secondario.

L’essenziale è l’attinenza al tempo e l’incontro con le masse. Un principio teorico stabilito chiaramente è quello della ribellione. Il socialista, secondo Prampolini, non fa la rivoluzione e non pratica la violenza; pratica la lotta di classe, ma non semina l’odio di classe. Però non accetta "il sopruso", "l’arbitrio" contro il quale ha diritto alla ribellione.

Su questo tema, sono i migliori discorsi parlamentari di Prampolini, siglati per la storia del famoso episodio del "rovesciamento delle urne" a Montecitorio. Il rispetto delle regole del gioco, si direbbe far parte della concezione prampoliniana "dei diritti e dei doveri".

Questo tema non è secondario né la trattazione casuale: fa parte dei principi. Discende da questa fermezza, l’assoluta chiarezza con la quale Prampolini capisce il fascismo. Egli è uno dei pochi che non si sono mai fatti nessuna illusione, né hanno creduto che il fascismo fosse un fenomeno transitorio, o un incidente di percorso. La lettera di Prampolini ad Alberto Simonini, riportata dal Colliva, in questo senso è illuminante. "Qui ti dirò soltanto che nel mio pensiero, il metodo legalitario ebbe sempre per presupposto l’esistenza della legalità. Dove questa possibilità manchi, le vie della legalità sono chiuse e le aspirazioni… vanno a sboccare fatalmente nell’azione rivoltosa. Siamo oggi a questo punto? Vorrei sperare di no… Ma è dannoso nascondere a noi stessi e agli altri la durissima realtà… Bisogna che la dittatura appaia a tutti quale essa è. Conoscere esattamente le posizioni proprie e quelle dell’avversario è la prima condizione per una lotta vittoriosa. Noi siamo un’immensa maggioranza presa alla gola da una esigua minoranza, che è nata la leggenda cui accenna Togliatti nel suo famoso articolo di commemorazione, o meglio di esecrazione, per la morte di Turati su "Stato operaio", che alla fine della vita di Prampolini avesse ammesso che avevano ragione i comunisti a praticare la rivoluzione violenta.

Naturalmente, era questa una consapevole bugia di Togliatti, perché Prampolini poteva concepire la ribellione non come strategia, ma come risposta all’illegalità dello Stato. E’, secondo me, anche certo che la ribellione prampoliniana non poteva essere pensata che come lotta non violenta, come diritto alla disubbidienza civile. Con tali idee, sarebbe stato curioso vedere un Prampolini giovane nel ‘22-’24, ed è sicuro che avrebbe dato a Mussolini preoccupazioni quante Matteotti. Ma, come scriveva a Simonini, "la mia povera testa stanca ed insonne deve astenersi da qualsiasi fatica".

L’altro aspetto della grandezza di Prampolini, è la simbiosi tra la predicazione e la concretezza, cioè la capacità realizzatrice ed organizzativa. E’ questo l’aspetto più tipico del riformismo emiliano, che lo rende unico non solo in Italia, ma in Europa. E’ questo che fa di Prampolini un vero e proprio leader e non solo un predicatore; è la facoltà di creare intorno a sé, un gruppo dirigente fedele ma autonomo nel proprio campo di azione,

Questa simbiosi è estremamente rara negli uomini politici, e specie in Italia; oggi poi è del tutto scomparsa.

Non è un dono singolare, è un portato dell’ambiente. Il fenomeno Prampolini non fu ripetibile fuori dell’Emilia. Infatti, i suoi emuli sono tutti emiliani: Agnini, Massarenti, Baldini, Faraboli, Zanardi, oltre ai suoi discepoli reggiani, Soglia, Sichel, Storchi, Samoggia, Vergnanini, Roversi, Bellelli, e caso a parte Giovanni Zibordi, che essendo mantovano era mezzo emiliano. Zibordi fa la ripetizione giornalistica di Prampolini mentre gli altri furono organizzatori e amministratori.

Quando dico "la ripetizione giornalistica" di Prampolini, non intendo affatto sminuire la statura di Zibordi, che fu un grande giornalista politico. Nella polemica interna di partito, Zibordi fu negli anni successivi più efficace di Prampolini, il quale lasciò sempre più spazio al suo braccio destro politico.

Zibordi intuì per primo la vera natura di Mussolini. Scriveva su "La Giustizia" dopo il congresso di Reggio del 1912: "Noi non possiamo essere tra coloro… che sorridono di questi suoi impeti come bollori di gioventù… Da non prendersi sul serio". Intuì, meglio di Turati, che "l’avventuriero senza avvenire", l’avvenire, purtroppo, ce l’aveva.

Mantovani come Zibordi, erano d’altronde i primi cooperatori della Bassa, Siliprandi e Sartori. A tutti costoro, Prampolini consegna, oltre al breviario, il bastone di maresciallo nello zaino perché tutti diventeranno deputati, sindaci, presidenti di aziende.

Se è vero, come ci insegnano, che il buon Principe si vede dai buoni Ministri, si deve concludere che Prampolini fu un avveduto conoscitore di uomini e maestro di quadri.

E’ invece abbastanza dimenticato, e comunque sottovalutato, l’incontro fra il giovane Prampolini e l’ing. Contardo Vinsani. Da come ne scrive Prampolini a Turati, in ripetute lettere, il Vinsani doveva essere un bell’originale, Garibaldino, figlio di muratore, il Vinsani fondò la prima cooperativa di consumo e ne fece una cosa enorme, tanto che poi affondò nei debiti. Egli aveva un sovrano disprezzo della politica e dello stesso socialismo: credeva soltanto nel cooperativismo. Dal consumo si sarebbe passati alla produzione, al credito, ai trasporti e a tutto; quello che poi Vergnanini chiamò "la cooperazione integrale". Egli si rifiutava di scrivere a Turati, e a chiunque non si intendesse di grano, vino, terra e consimili. Rifiutò di farsi eleggere deputato e di uscire mai dalla provincia di Reggio. Ad un certo momento, aveva raccolto 18 mila clienti nella cooperativa (nel 1884); non riuniva mai nessuno, né soci, né consiglio, e aveva denominato la cooperativa "Excelsior" Il Contardo Vinsani fallì, ma poi vennero Roversi con la prima cooperativa muratori, Vergnanini e gli altri.

In materia di cooperazione, c’è un problema che sarebbe strano che Prampolini, e soprattutto Vergnanini che oltreché un pratico fu anche un teorico del movimento, non si siano posto.

Eppure non ne ho finora trovato traccia in nessuno dei saggi su Prampolini e sugli altri riformisti dell’epoca.

Nei primi tempi, su "La Giustizia" si rincorrono i famosi dialoghi tra "il contadino e il socialista", il cui metodo è appunto il metodo dialettico dei preti, nei quali si espone un socialismo proudhoniano e "comunardo". Il centro è il Comune, o "la Comune", in ricordo di quella di Parigi. La proprietà è collettiva, ma gestita dal Comune. "E’ il Comune che farà lavorare i campi, il Comune che farà costruire e restaurare le case… e che in base alla statistica, provvederà ai bisogni di tutti". In sostanza, è la stessa credenza che si tramanda, dalla Comune fino al Soviet, e che sappiamo bene come è finita. Rileggendo oggi quei dialoghi, la resistenza del "contadino" diventa davvero plausibile. La fatidica domanda: "Come faremmo noi a lavorare se non ci fossero i padroni?" Avrebbe oggi la generale risposta: "Qualsiasi cosa è meglio del Comune", intendersi per Comune qualsiasi potere pubblico, dallo Stato alla Regione. Insomma, il passaggio dalla concezione della proprietà collettiva alla cooperazione, non risulta chiarito teoricamente nella prima fase del prampolinismo.

La polemica riformista con i massimalisti, con i sindacalisti ed infine con i comunisti, si attesta su due capisaldi: il rifiuto della violenza, sia pure rivoluzionaria e maggioritaria; il metodo democratico della democrazia rappresentativa, come sistema.

Rimane la questione economica. Prampolini ha chiara la differenza tra appropriazione collettiva e appropriazione statale dei mezzi di produzione? Eppure questa differenza dovrebbe essere insita in tutta la concezione del socialismo reggiano. La cooperazione, più che il sindacato, porta all’idea e alla pratica autogestionaria. Il socialismo reggiano è solo in terza istanza sindacale; è prima di tutto politico, poi cooperativo e amministrativo. Dovrebbe essere pacifico, che la pratica cooperativa è l’antitesi del capitalismo di Stato. Prampolini avrebbe dovuto istintivamente ribellarsi alla sola idea del capitalismo di Stato, e dell’appropriazione delle libere cooperative da parte del potere pubblico, cosa che del resto avverrà con il fascismo.

Ciò è molto importante perché dimostrerebbe che il socialismo italiano, là dove si realizzato, e quindi non ha vissuto di sola propaganda o di sindacalismo, come in Emilia, è stato un socialismo autogestionario.

I due curatori di questo volume, daranno forse una risposta al quesito, nel secondo volume che stanno preparando.

Può darsi che la domanda non si fosse posta con piena consapevolezza prima del 1914. Ma sarebbe veramente strano che, né Prampolini né alcuno dei suoi seguaci, si sia posto il tema nel confronto con i comunisti e con la rivoluzione russa. Il rifiuto della esperienza sovietica avrebbe infatti dovuto derivare, non solo dalla ripulsa della violenza e della dittatura ma anche dalla grande questione della democrazia economica.

E’ strano che sia stata proprio questa, che fu la più alta caratteristica del riformismo emiliano, e cioè la capacità della realizzazione concreta, la dimostrazione coi fatti del socialismo, la coerenza fra i principi e la loro attuazione, ad attirare gli insulti più atroci, prima dei reazionari, poi dei comunisti ed infine dei fascisti. Ma vi è una logica, per cui è più facile battere le chiacchiere che i fatti Mussolini sapeva molto bene, per personale esperienza, che il massimalismo verbale del fascismo; molto più difficile distruggere una leggenda che era stata consacrata dalle opere. I comunisti hanno capito dopo la Liberazione, quello che gli anarco-sindacalisti non avevano capito mai; e cioè che all’attacco delle "pecore reggiane" conveniva accompagnare l’eredità del patrimonio. Oggi, dopo quasi 40 anni di dominio nella Regione, sarebbe da chiedere ai comunisti emiliani che cosa rimanga in piedi del socialismo emiliano, se non l’eredità riformista della quale con indubbia capacità, si sono appropriati e che hanno allargato e potenziato. Su piano teorico, non c’è nulla; sul piano del costume niente di nuovo se non un minore arretramento rispetto allo sfascio morale del Paese.

Per cui suona ben strana oggi, e smentita dalla Storia, la polemica gramsciana su "Le Guardie Bianche di Reggio Emilia".

Scriveva Gramsci nella rubrica appositamente dedicata ai riformisti su "Ordine Nuovo", intitolata appunto "I traditori sociali" (dove si vede che il termine di socialtraditore non è invenzione stalinista ma gramsciana), nel 1920.

"I moralisti di Reggio hanno sempre dimostrato di essere capaci di ragionamento quanto una vacca gravida. (Chi sa poi perché gravida). E’ inutile sperare che un barlume d’intelligenza illumini la loro decorosa idiozia di Fra Galdino alla cerca delle noci per ingrassare la clientela elettorale… A Reggio Emilia si apre spaccio di moralità per sacrestani ubriachi: perché questi cooperatori col sangue e le lacrime dei contadini meridionali, ingrassatori di porci con la biada governativa, non hanno avuto un minimo di lealtà per uscire dal Partito dopo il congresso di Bologna?… Ma a Reggio esistono dunque nel movimento socialista solo le Guardie Bianche". E conclude chiedendosi come mai si lasci fregiare "l’immondo libello, la Giustizia", del titolo di organo dei socialisti di Reggio Emilia.

Ho ricordato questo "pezzo" di Gramsci, non per rifarmi a vecchie polemiche, datate dall’ambiente di allora, ma perché sia chiaro quello che era non soltanto il giudizio politico, ma il sentimento dei comunisti verso il riformismo reggiano. Per poi ricordare quanto fosse sbagliata la tesi di Gramsci per le conquiste del socialismo "nordico" erano pagate coi sacrifici del proletariato "sudicio" (sono sempre immagini sue). Certo egli non poteva prevedere che i comunisti emiliani sarebbero diventati enormemente più abili dei prampoliniani nell’adoperare le risorse del potere pubblico (naturalmente estorte a poveri meridionali) per finanziare le loro organizzazioni. E infine, per ricordare che la revisione in corso nel PCI, non può riguardare il comunismo sovietico, ma è bene che comincia a rivedere il pensiero di Gramsci e di Togliatti; e non solo prima del Congresso di Lione, ma specialmente dopo. Ma anche perché attiene una polemica della quale, si deve ammetterlo, Gramsci aveva la sua parte di ragione. E cioè, perché i riformisti abbiano accettato, dopo il Congresso di Bologna e fino al 21, di rimanere in un Partito che di fatto non era più il loro, e che aveva, sia pure 3obtorto collo", accettato la rivoluzione e le tesi bolsceviche.

Questo tema, riguarda la coerenza e a concretezza delle scelte prampoliniane nel campo politico. Uno dei meriti di Prampolini, e che "scelse" sempre, virtù molto rara nei politici di oggi e anche in quelli di allora. Nel 1920 i riformisti non avevano ancora scelto la scissione, come poi fecero i comunisti nel ’21 e successivamente i riformisti stessi nel ’22.

Rivedendo con gli occhi d’oggi i fatti d’allora, non c’è dubbio che i riformisti avrebbero dovuto fare un loro partito e andare al Governo. Ma ciò significava la distruzione di un partito, che solo un anno prima era uscito dalle elezioni con 160 deputati. Ciò ripugnava profondamente al loro senso religioso dell’unità del partito e della classe.

La riprova dell’errore doveva venire troppo tardi, alle elezioni del 1924. In tutta Italia, il partito socialista riformista ottenne 420.000 voti, il PSI 362.000, il PCI 266.000; a Reggio poi, 11.000 contro 1.600 e 2.000.

Sono anche convinto che Prampolini e lo stesso Turati cominciassero a rendersi conto dell’inanità dello sforzo, e a vedere che la frantumazione socialista non avrebbe potuto comunque contrastare il fascismo. Questa rassegnazione non era dovuta alla vecchiaia, ma al logoramento di quaranta anni di lotta politica. Ben diversamente, infatti, avevano reagito trent’anni prima, quando si trattava di fondare il partito e di chiarirne le caratteristiche con gli anarchici. Questo periodo è largamente testimoniato nella raccolta di scritti di cui ci stiamo interessando. Barazzoni ricorda alcune frasi del discorso di Prampolini a Genova. "Vi parlerò con il cuore, da amico franco e nell’interesse comune. Da anni e anni, noi combattiamo una lotta continua… Noi siamo due partiti essenzialmente diversi, percorriamo due vie assolutamente opposte, tra noi non può esservi comunanza, perciò lasciateci in pace". L’intervento è certamente pacato come osserva Barazzoni, ma di quella pacatezza reggiana per cui quando si dice: "lesmi in res" lasciatemi in pace, il discorso è definitivamente chiuso, e non c'è più niente che lo riaggiusti.

Nessuno può dire, cosa sarebbe stato dell’Italia, se già nel 1919 i riformisti avessero detto ai mass malisti e ai comunisti "lasciateci in pace", ognuno per la sua strada. Del resto, fu questo il saggio consiglio di Lenin, e in questo aveva ragione.

Ma allora il discorso andrebbe riportato indietro. Il PSI non si ammalò con la guerra mondiale, ma assai prima. Al congresso di Reggio nel 1912, il congresso di Mussolini, la divisione dei riformisti "sinistri" e "destri" avrebbe dovuto essere evitata.

La perdita di Bissolati, Bonomi, Cabrini, Bertesi, fu la premessa della successiva sconfitta dei riformisti classici, che avevano fondato il partito.

Il PSI fin dall’inizio, trascinò questa ambiguità tra massimalismo e socialdemocrazia, che è continuata del resto fino a Nenni, e che è stata rotta decisamente solo da Matteotti e da Saragat. Si deve a questo, se l’Italia non ha potuto avere nel tempo giusto, tra il 1900 e il 1915, una grande socialdemocrazia che potesse tentare di prenderne le redini del dopo guerra. Ma la storia non è fatta di "se" e di "ma".

Voglio infine pormi un ultimo quesito, un quesito che riguarda il passato e il futuro della socialdemocrazia.

C’è in comune nei riformisti padani da Prampolini per primo, a Gregorio Agnini a Massarenti, a Baldini, a Badaloni, un elemento che non è oggi più ritrovabile, perché è stato distrutto dalle due guerre e dai totalitarismi. E’ l’umanesimo socialista: non solo l’amore per l’uomo ma la fiducia nell’uomo. A rileggere molte pagine, di Prampolini, di Badaloni, di Massarenti, esce fuori una tal sicurezza che l’umanità possa un giorno veramente essere affrancata e affratellata, che ci lascia sbalorditi. Noi, delle generazioni successive, siamo purtroppo una razza diversa; una razza, come si dice, disincantata. Noi abbiamo visto le guerre, e in Emilia gli anni tra il ’43 e il ’45 che sono stati di vera e propria guerra civile. Abbiamo poi "visto", e non solo "letto" come poteva essere un tempo, Hitler e Stalin, l’umanità dei lager, abbiamo letto Solzenitzin, oggi vediamo la Polonia. Purtroppo, la nostra esperienza ci ha insegnato che l’uomo reale è quello di Machiavelli e non quello di Prampolini. E quando indico Machiavelli, indico un altissimo grado di civiltà e di cultura, e di profonda conoscenza dell’uomo; in grado dopo di allora mai più raggiunto. Niente a che fare, cioè, con la concezione dell’uomo di Goebbels e di Zdanov, perché Machiavelli era la scienza del reale, Hitler e Stalin erano la scienza del male. Ci viene allora da chiederci, che cosa avevano intravisto questi uomini della fine dell’800, che noi non riusciamo a vedere più. A leggere la lapide di Agnini a Finale, le ultime parole di Badaloni a Rovigo si resta attoniti.

"Il popolo che non dimentica – dice oggi a Gregorio Agnini – eravamo bruti e ci hai dato una coscienza – eravamo schiavi e ci hai fatto cittadini – eravamo divisi e ci hai dato la suprema dolcezza – della solidarietà fraterna". Questa è la lapide di Agnini. E questo l’estremo saluto di Badaloni, il medico dei poveri: "Noi non abbiamo altra forza che quella della nostra unione, della solidarietà, dell’affetto che ci lega. Essere uniti: una la fede, uno il proposito dei cuori, cercando di divenire migliori, non dimenticando che la bontà è una delle più grandi forze della vita. Dove essa alligna scompaiono i biechi egoismi che di tanto dolore e tutti hanno desolato la terra, aggiungendo agli orrori della guerra quelli non meno mostruosi della cupidigia umana".

E’ retorica positivistica? E’ linguaggio liberti? Si, ma questa è la moda del tempo. Ma essi credevano in quel che dicevano, e ci credevano quelli che li ascoltavano. Da quale pianeta venivano costoro, dove avevano imparato questa lingua che noi oggi non riusciamo più né a parlare né a capire?

Ultimi di un grande secolo di speranze, costoro avevano davvero intravisto la pace universale, lo sviluppo continuo della scienza, la progressiva espansione della produzione e della ricchezza, la fratellanza fondata sul comune riconoscimento dei diritti e dei doveri. Erano dei folli, degli illusi? No, perché da politici e da organizzatori di uomini avevano pur esperimentato i fallimenti, le delusioni, i tradimenti. Se ebbero i venti, trent’anni, di successo che hanno avuto; e nelle loro province, di non piccole dimensioni dopotutto, erano arrivati alla realizzazione di un socialismo libero e autogestionario, che fu battuto solo dalla violenza, evidentemente essi corrispondevano ad alcunché di profondo che si era verificato nella società di allora.

A questo quesito, non ho ancora trovato una risposta. La guerra del ‘15-18, e i sessant’anni successivi fino a noi, hanno sommerso tutto questo, come l’Oceano ha sommerso l’Atlantide; un continente di sentimenti, di costume, di saggezza, è andato perduto.

Sarà recuperato? Non dispero, ma ne dubito. Ammesso che l’umanità superi il 1984 di Orwell e di Bukovsky, che si salvi nei prossimi anni, essa sarà completamente diversa e i moduli della sua sopravvivenza non potranno più essere contenuti nelle grandi idee di libertà e di eguaglianza dell’800, almeno quali noi le abbiamo conosciute e indegnamente ereditate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prampolini (Camillo), uomo politico italiano (Reggio nell'Emilia 1859-1930). Nato da famiglia agiata, frequentò i corsi di giurisprudenza a Roma e a Bologna (dove si laureò nel 1881). Convertitosi alle idee socialiste, collaborò dal 1882 al settimanale Lo Scamiciato, fondando poi La Giustizia (il cui primo numero apparve il 29 gennaio 1886). Oltre all'attività giornalistica, il Prampolini svolse un'intensa opera di propaganda, orientata nel senso di un “evangelismo” socialista, nelle campagne del Reggiano, sviluppando una fitta rete di cooperative e di organizzazioni di resistenza. Eletto deputato nel 1890, fu nel 1892 tra i fondatori del partito socialista (congresso di Genova), di cui diresse l'organo ufficiale, la Lotta di classe, e nelle cui file continuò a militare come una delle personalità più in vista della corrente riformista. Arrestato durante il periodo delle leggi eccezionali crispine e ancora nel 1899 (a seguito dell'ostruzionismo parlamentare), dopo l'avvento al potere del fascismo dovette lasciare Reggio e lavorò a Milano.